Prima che sentissero direttamente l’impatto della guerra, mia madre ottenne il suo diploma dal magistero in via San Nicolao, come sua sorella Gina, ed anche la sua amica Angela. Gina andò direttamente ad insegnare in Garfagnana, mentre mamma continuò gli studi, scegliendo chimica all’università di Pisa. Avrebbe voluto studiare medicina come la pediatra a Lucca che ammirava tanto, ma suo padre la convinse che sarebbe stato troppo difficile frequentare il lavoro in laboratorio e completare i corsi necessari. Quando viaggiare in treno diventò difficile, nonno Gino non le permise di dormire in un convento a Pisa come faceva Angela, allora fu costretta ad andare in bicicletta per dare gli esami — anche fino a Calci.  A quel tempo, la galleria che accorcia il tempo di passaggio fra Lucca e Pisa era appena stata forata, ma era senza illuminazione. Dato che neanche il pavimento era spianato, dovette farla a piedi con la bicicletta e suo fratellino Carlo da chaperon per andare a Calci a dare un esame.  Quando seppe quello che era successo, nonno Gino prese un’automobile per portarla all’esame successivo, dopo di che però ci furono poche opportunità per ripetere l’esperienza. 

Gli Alleati cominciarano a bombardare la toscana come un preludio alla loro entrata.

Nonno Cecco, ch’era rimasto vedovo, senti` le bombe che cascavano su Pistoia.  Anche Mamma, Carlo, Gina, ed Angela le sentirono.

Il giorno dopo Pasqua, erano saliti a Santallago sul monte sopra Coselli (dove stava la famiglia di Angela d’estate) per fare un pellegrinaggio a vedere i fiori di Santa Zita che sbocciavano lí su tutto il prato. Poco dopo, nonno Cecco morì mentre dormiva. Aveva 93 anni. Aveva spesso detto che non desiderava impedire lo sfollamento della famiglia nella campagna, ma che desiderava morire nel suo letto. Gli Alleati avevano distrutto tutta la zona intorno alla stazione e alle rotaie, gli esami quindi non erano più una priorità.

A diciannove anni, Mamma cominciò il lavoro come “impiegata di concetto” al Ministero dell’agricoltura e foreste, per il servizio dell’alimentazione in guerra per la provincia di Lucca.  Le dettero un ufficio spazioso con una grande finestra luminosa che dava sulla piazza dell’Arancio in centro, ed un capo ufficio che era un grande amico di suo padre: Omero Pierotti. Capitano Pierotti era un uomo molto carismatico e saggio politicamente, caratteristiche che gli furono molto utili dato che il loro ufficio era responsabile per la contabilità dei prodotti agricoli della provincia e la loro ridistribuzione secondo le regole delle razioni durante la guerra. Le diedero inoltre dei documenti che attestavano che svolgeva un lavoro governativo essenziale per il quale aveva bisogno della bicicletta, documentazione che anche i tedeschi dovevano rispettare quando sarebbero arrivati. 

Questa fiducia fu messa alla prova quando Mamma passava da San Michele in bicicletta sulla via per il lavoro, ed un soldato della SS le cominciò a gridare: “ACHTUNG! ACTUNG!” 

Mia madre si fermò perché le puntava una pistola, e perché il soldato sembrava che avesse 16 anni e che fosse disperato. Mamma gli lasciò prendere ciò che voleva: la sua bicicletta senza gomme. Benché fosse furiosa, lo lasciò fare perché le puntava la pistola alla testa. 

Mamma non disse una parola, ma invece andò subito a cercare il comandante tedesco.  Il comandante era un uomo alto, di una certa età e sembrava intelligente.  Gli mostrò i suoi documenti di lavoro che specificavano che aveva bisogno della bicicletta. Lui le disse di montare nella jeep ed ordino` all’autista di portarli fuori porta dov’era il campo dei tedeschi. Quando arrivarono, le chiese di identificare il soldato che aveva preso la sua bicicletta. Il soldato dev’esser stato terrorizzato perché le mormorò in italiano che non era tedesco, era polacco, come se fosse una scusa.  Mamma riprese la bicicletta, ed il comandante la lascio tornare in città al lavoro. Dopo Mamma ammise d’aver fatto un atto un po’ rischioso, ma disse d’esser stata fortunata ad aver trovato un ufficiale che credeva nella forza dell’ordine.

I soldati tedeschi racimolavano provviste per quanto possibile, diceva Mamma, dato che avevano tutti capito che stavano perdendo la guerra ed avevano bisogno di provvigioni. Commisero reati innumerevoli per provare a reprimere i partigiani e mettere paura a tutti gli italiani.  Questo era il periodo in cui le famiglie di Mamma, e della sua zia Pia – eccetto gli uomini – furono sfollati in una villa in un paesino a nord della città che si chiama la Cappella.  

Mia madre e sua sorella Gina andavano al lavoro tutti i giorni in bicicletta, nonostante le condizioni e le distanze. Fu in questo periodo che Mamma fu testimone dell’usanza nazista di ammazzare dieci italiani per ogni soldato tedesco ucciso dai partigiani.

I tedeschi sceglievano le loro vittime a caso.  Fra questi, mia madre vide i vecchi con cui faceva la strada per Lucca tutte le mattine, erano stati fucilati al lato della strada;  ancora più sconvolgente, vide anche un bimbetto di sei anni fra le vittime.  Capí che se non avesse variato il suo orario quel giorno, anche lei sarebbe stata fra gli uccisi. 

Zio Carlo aveva 16 anni come suo cugino Alberto, quando furono sfollati alla Capella. Dovevano nascondersi per evitare d’esser catturati dalle SS per i loro pogrom.  Le donne di campagna stendevano coperte colorate fuori per segnalare quando i tedeschi erano in giro cosicché potevano rimpiattarsi.  Lo zio raccontava di come una volta dovette nascondersi in una grotta in giardino dove c’era anche una cava. Un soldato SS arrivò e guardò nella grotta con una torcia – ma non ci entrò dopo che vide l’enorme rospo che ci abitava. Poco dopo, la SS decise che la villa era in una posizione perfetta di sorveglianza (essendo su una collina con una vista sulla valle e sulla strada per Lucca).  Mandarono le famiglie a stare in cantina, e gli ufficiali andarano a stare ai piani signorili.  Le famiglie Bedini e Pancaccini s’arrangiarono: i ragazzi rimasero nel bosco fino alla liberazione di Lucca per mano delle Buffalo Brigades.  Mio zio, con un’enorme barba, andò subito ad accompagnarli, traducendo ed aiutandoli fino a quando andò in pensione dall’esercito americano trent’anni dopo.  

Durante questo periodo, un cugino di mia nonna Marianna, che faceva il prete in campagna ed era nella resistenza, fu fucilato dalle SS quando scoprirono che nascondeva una radio nel campanile della chiesa. 

Nonostante il fatto che nonna Marianna non permettesse a Mamma di stare in cucina, a Mamma fu assegnato il compito di cucinare per suo nonno e suo padre quando restava in citta` ad aiutarli, cosa che accadeva spesso. Mia madre era orgogliosa del fatto che nonno Cecco la dichiaro` una brava cuoca.  Le cannonate aumentarono dopo la morte di nonno Cecco ed i tedeschi diventarono ancora più disperati preparando il loro ritiro. Anche se c’era poca gente a giro, nonno Gino aveva tenuto aperto il caffe Savoia, lavorando tutti i giorni.  Un giorno mentre camminava a casa dal lavoro, delle SS cominciarono ad inseguirlo, urlando che si fermasse. Lui corse e li scartò entrando nella porta di casa prima che lo raggiungessero. Corse sú per i quattro piani ed uscì sul terrazzo a tetto chiudendosi dietro la porta a chiave. Afferrò le sbarre della finestra dei vicini che si affacciava sul terrazzo, queste si sbloccarono, perché la vicina aveva l’abitudine di lasciarle aperte per ricoverare piu` facilmente i giocattoli che i suoi figli ci buttavano con frequenza.  Nonno Gino sali` sulla finestra, entrò dai vicini, e chiuse le sbarre a chiave, poi corse a rimpiattarsi.  Non trovandolo in via San Paolino 6, i nazisti partirono per trovare altra gente da schiavizzare. 

Quando i nazisti lasciarono la regione e la casa alla Cappella, la famiglia di Mamma andò a stare più vicina alla città in una villa a Ripafratta.  Qui e` dove dopo la liberazione di Lucca, Mamma studiava mentre gli aviatori Tuskegee facevano il tirocinio sulle sponde del fiume.  Ma in quel momento c’era una calma innaturale nell’aria mentre la città attendeva l’arrivo degli americani.  

Quando le bombe cascarano di nuovo il risultato fu tragico.  Nonno Gino, zio Natale ed altri erano ostinatamente restati in centro. Quando un giorno suonarono le sirene di evacuazione, corsero in cantina del palazzo dei Pancaccini in via Burlamacchi.  Mamma si ricorda che la cantina aveva soffitti molto alti ed era molto pulita.  Qualcuno aveva messo materasse e coperte sul pavimento di terra battuta per far sembrare l’attesa più comoda. Esplorando si rivelo` il fatto che tanti dei palazzi nella vicinanza erano connessi da porte e cancelli non sempre chiusi a chiave. Se fossero cannonate o bombe non e` chiaro, Mamma non se lo ricordava, ma questi  arrivarono di volata e ce n’erano molti. Il palazzo dei Pancaccini se la scansò senza danni.  Ma quando uscirono dalla cantina per esaminare cos’era successo altrove, videro che un grande palazzo in piazza della Cervia, a meno di 50 metri dalla chiesa di San Michele, e meno di 20 metri dai Pancaccini, era stato colpito così duramente che sarebbe stato poi abbattuto. Nonostante fosse un miracolo che San Michele ed altri monumenti non fossero danneggiati, diversa gente, incluso la madrina a cui Mamma voleva tanto bene e sua madre furono ammazzati; anche il suo bimbo di 7 anni fu ferito gravemente.  Mamma si ricorda che poco dopo passava da quella piazza e si chiese: guarda dov’è andato a finire un guanto, in cima a quel palazzo!  Poi invece s’accorse che si trattava di una mano. 

L’unico danno alla casa in via San Paolino 6 fu il frantumarsi del lucernario in milioni di schegge che volarono ovunque. Furono tutti molto grati di non esserci rimasti. Il giorno dopo, uno degli uomini che nonno Gino conosceva era già lì a rimettere il vetro. Ma la prima notte che Mamma ci dormi`, le sembrava di sentire una persona che saliva le scale – scoprì che era un talpone, evidentemente scombussolato dal bombardamento.  Menomale che nonno Gino conosceva qualcuno capace di risolvere anche quella situazione. 

Nonostante la morte e la distruzione ai quali fu testimone durante la guerra, Mamma cercò sempre di parlare positivamente della sua vita, dichiarandosi una delle persone più fortunate al mondo, puntando sul fatto che non avevano mai patito la fame o la mancanza di cose essenziali. Ma le ci vollero decenni per perdonare i tedeschi per aver cominciato la guerra, e per aver rovinato gli anni della sua adolescenza e dell’università, che dovevano essere i più belli.  Non mi meraviglia che per quasi tutta la sua vita, se sentiva parlare il tedesco in italia, particolarmente da gente della sua età o più vecchi ancora – si poteva imbestialire. La guerra aveva distrutto i piani ed i sogni della sua generazione, la loro felicita` – non e` mai riuscita a prendere la laurea o a comprare una 500 ed andare a lavorare a Milano.  Nessuno morì di fame, ma i quattrini erano scarsi. Amici e parenti uscirono dal bosco e dai campi di prigionia ombre di quello erano stati, e con difficoltà cercarono  di finire gli studi o trovare lavoro, avevano poco tempo e poche risorse per i “divertimenti”.  

Non sorprende allora che nel ‘48 si lasciò portar via dal suo sposo,  bello e adorante, ad una comunità dove gallerie di alberi ombreggiavano ogni strada, e dove l’unico “tedesco” era un eroe: Eisenhower… ma quello sarà un racconto per un altro momento.

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