Dopo la guerra, zia Gina continuò a fare la maestra. Donny, il bel soldato sudafricano di cui si era innamorata, non le scrisse mai come aveva promesso, e allora lei cercò di svagarsi dando tutto il suo affetto a un cucciolo non di razza che chiamò “Bijoux”. Quando zio Carlo sentì il nome esclamò: “Altro che un bijoux – quel cane lì è un BRICCO” – e il suo nome rimase quello. Purtroppo, neanche Bricco fu leale a Gina perché cominciò a dormire tutte le sere in fondo al letto di mia mamma invece che al suo. Mamma diceva che Bricco faceva amicizia facilmente e che era ubbidiente, ma non troppo intelligente, perché Nonno Gino gli comprava collari di pelle rossa per distinguerlo dagli altri bastardini che girottolavano per strada, ma tutte le volte dopo poco tempo Bricco si lasciava rubare il collare (che i ladri sicuramente rivendevano).
La povertà era dilagante. Tante giovani si immersero nell’euforia della fine della guerra e sposarono soldati americani che conoscevano a malapena. Il governo USA facilitava gli incontri tra soldati e “segnorine” pagando le giovani 1,000 lire per sera se erano disposte a partire in autobus per andare a balli in campagna dove i soldati le aspettavano con entusiasmo. Anche se le segnorine oscuravano le loro reputazioni per andare a ballare, a quei tempi 1,000 lire erano un sacco di quattrini – non solo ci potevano mangiare, ma potevano anche comprarsi pellicce di coniglio e vestirsi alla moda, e ai balli molte trovarono mariti che le portarono negli USA per inseguire avventure di ogni specie.
Però non tutte le war brides che si sposarono erano povere. Mamma parlava spesso della figlia di una famiglia nobile e ricca lucchese che si innamorò di un ufficiale bello e galante della Pennsylvania. La famiglia lasciò che lo sposasse perché in italia fare l’ufficiale significava essere educato e di buona famiglia. Il suo ufficiale americano era bello ed figlio di un capo stazione. Dopo qualche anno, comunque, la giovane ritornò a Lucca con due figlie piccole, e nessuna spiegazione fu data per la mancanza dell’ufficiale.
Nel dopoguerra, Mamma cercava di spicciarsi a finire il dottorato in chimica inorganica. Le mancava di dare solo un esame, completare la tesi e difenderla. Parlava spesso di come i professori cercavano di aiutare gli studenti tornati dalla guerra ma poco preparati a dare esami. Spesso questi si mettevano la fede pur non essendo sposati per sollecitare i professori a passarli con un voto minimo, cosa che i docenti facevano per levarseli di torno. Tutti, diceva mamma, cercavano di finire per trovare lavoro. L’obiettivo di mamma era di diventare una chimica, comprarsi una FIAT 500, e andare a lavorare a Milano.
Arrivare a Pisa per dare gli esami, però, era un’avventura. Prima che le strade e le rotaie fossero ricostruite, l’esercito americano trasportava gli studenti e la gente fra Lucca e Pisa con furgoni aperti. Grazie alle buche, il viaggio era pieno di scossoni, e grazie al senso dell’umorismo contorto di alcuni camionisti, poteva essere anche terrificante. Il percorso non era facile, ma con tanta gente in piedi la probabilità di cadere era limitata.
A casa mia non si affrontava l’argomento di come conoscere qualcuno di interessante e sposarsi. Si parlava invece di scuola e di carriera futura. Mio padre fece del suo meglio: non sono mai stata la sua bimbina, ero invece il suo “kid” – un suo “apprendista” – una persona cara a cui cercava di insegnare tutto ciò che sapeva di meccanica e fai da te – in italiano e in inglese – per farmi capire come riparare qualsiasi cosa. Insieme noi tre toglievamo la carta dalle pareti degli appartamenti di mia nonna e dai nostri, le stuccavamo e imbiancavamo. Papà mi insegnò a sverniciare e riverniciare i pavimenti in legno, a identificare potenziali crepe nei tetti piatti ed a metterci il catrame — tante lezioni che potevano servire nella vita. Ma queste attività non avevano mai il primo posto – quello era riservato allo studio. Uscire con gruppi di amici andava benissimo, ma né Mamma né Papà si aspettavano che uscissi per ragioni romantiche – c’era troppo da realizzare prima nella vita.
Chiaramente si aspettavano che quando avessi conosciuto quella persona speciale sarebbe stato immediatamente ovvio per entrambi e che questo ci avrebbe portato a stare insieme per tutta la vita. I miei genitori sono stati simbolo di impegno e dedizione e, nonostante tutto, sono rimasti sposati fino alla morte – quasi 62 anni dopo che si sono conosciuti. Quasi tutto quello che so sul loro corteggiamento però, mi è stato raccontato da mia Nonna Marianna. Di solito Mamma parlava solo di come fosse buffo che una ragazza come lei di Lucca drento si potesse innamorare di uno di Lucca fora, e non solo, ma di un americano, eppure lo charme e bellezza di Ube (come tutti lo chiamavano) la convinsero. Papà poi era figlio di famiglie rispettabili, che non erano contadini a mezzadria, ma invece contadini sul suo, che controllavano tantissime terre a San Concordio e Sorbanello. Ma non sapevo i dettagli di cosa successe dopo che si conobbero Mamma e Papà, prima che mia nonna me li raccontasse casualmente un giorno.
La notizia mi arrivò una delle volte che andai a trovare Nonna alla sua villa a Vicopelago, un sobborgo di Lucca. La andavo a trovare quasi tutti i weekend. Facevo il secondo anno dell’università a Smith College, ed ero venuta in italia per studiare un anno all’Università di Firenze. Ma mi piaceva tanto sfuggire nella mia 500 per scoprire tutti i vicolini e la storia che mi poteva far conoscere Nonna della vita dentro le mura. Durante questi viaggi di scoperta, mi presentava a tutti i suoi amici negozianti, dai quali aveva sempre degli sconti. Mi disse di non vergognarmi a chiedere sconti perché, dopotutto, i Bedini facevano parte di questo circolo privato da lungo tempo.
Allora ogni secondo fine settimana e ogni festa, facevo un’ora e mezzo di strada dalla mia camera nelle stalle ristrutturate del Palazzo Antinori a Firenze fino a Lucca, alla ricerca di una fantastica doccia (senza-limite-di-acqua-calda!) e del mangiare eccezionalmente buono di mia nonna.
Durante uno di questi pranzi si parlò per caso del matrimonio di Mamma e Papà. A nonna piacque molto mio padre sin dal momento in cui lo sentí parlare. Papà sapeva usare il suo lucchese antico per scherzare. Nonna raccontava quanto fosse un bell’uomo quando mamma lo vide – più bello di Gary Cooper – e disse che indossava elegantissimi completi di stoffe lussuose. Era il 1948. A quel tempo non c’era da vergognarsi a portare cappotti fatti di coperte di lana tinte per nascondere lo stemma dell’esercito americano. Non c’erano né soldi né stoffe per fare vestiti nuovi. Nonna credeva che Mamma non potesse che essere colpita dalla bella figura di questo giovanotto americano.
I miei futuri genitori erano ad un ballo nell’elegante palazzo Bernardini. Studenti soci dell’Associazione Goliardica (la GL) dell’Università di Pisa erano invitati al ballo e il bel cugino carismatico di Papà, Renzo Roberti che studiava medicina veterinaria a Pisa, ci portò anche lui. Papà era a San Concordio con sua madre, Teresa, a visitare i loro numerosi parenti dopo la morte a Evanston di suo padre, Rinaldo.
Era diventato amico dei suoi cugini quando era stato a trovarli nel 1925 (allora mamma aveva due anni). Mio Nonno Rinaldo (che tutti chiamavano Bobby) lo aveva tolto da scuola, insieme alle due sorelline, e li aveva portati con la moglie a Lucca per nove mesi. Nonno e due dei suoi fratelli avventurosi si erano promessi di trovarsi a Lucca, ma solo Rinaldo arrivò alla riunione. I due che erano andati a cercare fortuna in Sud America invece non si fecero mai vivi.
Mentre era in italia Papà strinse un legame forte con i suoi cugini Renzo e Roberto Roberti (che sarebbe poi diventato il campione europeo dei pesi massimi). Papà parlava sempre di quanto si divertissero a quei tempi andando a caccia di rane ed anguille nel Lozzori (un tributario del fiume Serchio) – l’inquinamento non aveva ancora ammazzato tutto. L’esperienza in fattoria nutriva il suo desiderio di sapere come funzionassero tutte le cose meccaniche e agricole. A nessuno importava che l’italiano di Papà fosse ancora quello dei suoi genitori e che avesse smesso di evolversi nel 1890, con l’eccezione dell’aggiunta di qualche parola in italo-inglese…
Renzo portò Papà al ballo, e Papà ha sempre raccontato che nel momento in cui vide mia mamma all’altro lato della sala, si innamorò immediatamente. Mamma aveva i suoi bei capelli biondi rame tirati da una parte in un “colpo di vento”. Chiese di esserle presentato. Mia nonna, alla quale piaceva essere presente a tutte le feste a cui andavano le figlie, disse che ballarono insieme tutta la sera, il che è una cosa che stupisce davvero perché Papà ballava molto male.
Non sappiamo bene cosa successe nei giorni successivi, eccetto che pare che si videro tutti i giorni per circa una settimana, dando un bel da fare alla sorellina di Mamma, Laura, che doveva fare da “moccolo” per garantire che la reputazione di mamma restasse perfetta. Il cane di Mamma, Bricco, cominciò a fare le bizze ogni volta in cui vedeva arrivare Papà alla porta di via San Paolino 6 e andava tenuto di forza. Quando Bricco capì che Papà non se ne sarebbe mai andato cominciò ad abbaiare a tutte le ore e a fare la pipì in casa, comportamenti che lo condussero all’esilio dal cugino di Nonno che abitava dagli Urbani nelle campagne di Vicopelago. Dopo essersi sposata, Mamma seppe che Bricco era scappato pochi giorni dopo, e che non fu visto mai più.
Nonostante il “moccolo”, Papà riuscì a scappare con Mamma a fare un giro di mura in macchina, e in quel momento, da qualche parte, le fece la proposta di matrimonio. (Questo lo sappiamo solo perché più di 71 anni dopo, mio figlio più piccolo ha fatto la proposta alla sua futura sposa sulle mura, e Mamma ha confermato che anche il suo Ube aveva fatto così.)
Mamma accettò di sposare Papà, ma bisognava prendere un’altra grande decisione: la nave di Papà sarebbe partita dopo 10 giorni. Avere un biglietto per la traversata era stato difficile e costoso ed essendo responsabile per sua madre che non parlava l’inglese, non poteva lasciarle fare il viaggio di ritorno a Evanston da sola. Inoltre ci sarebbero voluti almeno sei mesi per andare e poi ritornare per Mamma se non fosse partita subito con loro. Decisero quindi di sposarsi prima anziché dopo.
Poi, secondo mia Nonna, a Mamma venne una febbre che la rese incapace di muoversi da casa per tutta la settimana prima del matrimonio. Nonna disse che le toccò affrettarsi per mettere insieme il corredo di Mamma ma trovò bellissime camicie da notte e sottovesti tutte di seta cucita a mano e ricamata. Per il vestito da sposa, si mise un tailleur blu molto elegante e semplice con il velo, non un abito bianco, colore che non sarebbe stato di buongusto dato il ricordo vicinissimo della guerra.
La cerimonia la fecero alle 7 di mattina nella chiesa di San Michele il 7 novembre 1948. Scelsero una messa presto la mattina per cercare di evitare la presenza di gente curiosa ed estranea, ma Mamma disse che c’era tanta più gente di quanto uno si sarebbe aspettato. Il ricevimento lo fecero a casa in via San Paolino, approvvigionato dal Savoia.
Il salotto era strapieno di amici e parenti, incluso il Conte Sardi che regalò a Mamma un carinissimo cestino in legno pieno di fiori di montagna in feltro per ricordarle tutte le loro gite sulle alpi apuane. Il suo compagno di studi di chimica, Giorgio Giorgi, le regalò un piattino di ceramica rifinito in pelle all’esterno e dipinto con una bella donna alla Modigliani all’interno. Suo fratello tanto caro, Carlo, le regalò il nuovissimo tomo: Ho scelto la libertà, con scritta una formula fisica dentro la copertina: la felicità infinita cresceva, secondo la formula, con l’amore.
Papà subì alcuni soprusi da giovanotti lucchesi a cui piaceva mamma da lungo tempo. Lo criticavano per essere venuto a Lucca a rubare in meno di tre settimane una delle loro donne migliori. Lui si difese dicendo che riconosceva una cosa buona appena la vedeva, e che loro avevano avuto anni per agire se avessero voluto. Papà era alto e messo bene, e allora non ci fu alcuna rissa.
Mamma e Papà andarono in luna di miele per qualche notte all’Hotel Baglioni a Firenze e poi partirono, com’era stato programmato, da Genova su una nave inglese con fermate ai porti di Halifax Nova Scotia, New York City, ed una vita nuova a Evanston, Illinois.