di

Carlo Rey Lacsamana

Al caffè, ascoltare i discorsi degli altri è una conseguenza naturale della frequentazione del locale stesso. Sono varie le conversazioni dei clienti, tanto da dare vita ad  una miscela di questioni: si parla di argomenti politici, di affari di amore, di sport, di scuola, di svariati interessi personali, dei fatti collegati alla pandemia. E tutto è permesso: dal banale, al ridicolo, dai pettegolezzi, allo scandaloso, fino al fatto pietoso. Nessun argomento è escluso.

La voglia di chiacchierare della “gente del caffè” è senza limiti, poiché l’essenza del locale è proprio quella di far scorrere le “chiacchere.”

C’è un caffè all’inizio di piazza San Francesco: se provieni dalla parte sud di via del Fosso e giri a destra nella piazza, vedi subito una fila di tavolini tondi con sedie imbottite, all’ombra.

Spesso mi fermo in questo locale, per i prezzi  contenuti dei suoi deliziosi dolci fatti in casa, per la musica a basso volume dello stereo, per la gradevolezza di stare all’aria aperta avendo in faccia l’odore esaltante di un buon caffè. Lodevole e ammirevole è anche il gusto musicale dei gestori. Ci sono locali in città che possono essere anche più affascinanti di questo caffè, ma se non tutti, molti di questi sono caratterizzati dalla cattiva musica che dispensano alla clientela. Un bel caffè con un gusto musicale non raffinato è come un pezzo di pasticceria ben decorato, ma dal sapore insignificante. La musica scelta male ha un effetto molto negativo: ci impedisce di meravigliarci. 

È domenica: il terzo giorno del lockdown “minore” (tutti i bar, i ristoranti e pub chiudono alle 6 p.m.; il coprifuoco inizia alle 10 p.m. e finisce alle 5 a.m.).

Siamo a metà della mattinata e sono seduto al tavolo di questo mio locale preferito e sorseggio un caffè, osservando la gente senza malevole curiosità. Cerco di godermi il ristoro e la ricreazione domenicale, cercando di adattarmi al nuovo ordine delle cose.

Una giovane coppia esce dal caffè con un piatto che contiene delle fette di pizza e con due lattine di coca-cola in mano. I due si siedono proprio davanti al mio tavolo. 

L’adozione del lockdown “minore”, dopo alcuni lunghi mesi di totale chiusura, scatena in qualche modo la nostra feroce abilità dell’oblio, la nostra incapacità di mettere in discussione il nostro modo di vivere abituale, messo in crisi e ridicolizzato dal virus.

Davvero se avessimo capito la gravità della nostra situazione, il drastico cambiamento che questo Covid impone alla nostra vita personale, sociale, culturale e spirituale, un giorno come questo sarebbe pieno di significato e compenserebbe la solitudine e la superficialità di una domenica banale, valendo ben più delle proteste per la libertà e per i diritti individuali, dei quali l’Occidente è ossessionato. 

Un significato dalle profonde radici, che tocca il senso della morte e che si focalizza su quello della vita. 

(Mentre scrivo queste parole, nel nostro Paese si registrano 300 morti ed alcune decine di migliaia di contagiati). 

Sento ora che la giovane coppia che mi sta davanti parla inglese. Sono stranieri, ma non riesco a capire il loro accento. Ad un altro tavolo una vecchia signora, con una voce assai stridula, risponde al telefono mentre sfoglia il giornale; un gruppo di ragazzini chiassosi attraversa in bicicletta la strada illuminata dal sole; un cane inizia ad abbaiare ad un altro cane; due uomini conversano vicino alla fontana, mentre riempiono le loro bottiglie.

“Non so se oggi è l’ultimo mio giorno sulla terra,” dice la signorina straniera, con nonchalance, sorridendo al suo compagno che mastica pazientemente la sua fetta di pizza. 

Ho perso il filo della loro conversazione, ma quella frase è stata registrata  immediatamente dalla mia mente. 

Ovviamente, nella profondità del suo cuore lei sa, come so anche io e come tutti quelli del caffè si auspicano, che oggi non sarà il suo ultimo giorno. Non molto spesso ci troviamo di fronte ad una simile affermazione: “il tuo ultimo giorno sulla terra”. E spesso abbiamo preparato un piano preventivo per come ci comporteremo quell’ultimo giorno. 

Anche se ci sforziamo di dare risposte più profonde a questo improvviso quesito, i nostri intendimenti  non sono molto convincenti, anche se non vogliamo ammetterlo a noi stessi. Non sono convincenti perché non possiamo affrontare efficacemente l’idea della nostra fine, perché siamo cresciuti in una cultura analfabeta nei confronti della fine del ciclo della nostra natura. 

Se proviamo a riordinare la frase di quella giovane ed invece diciamo:  non sappiamo se oggi, domani, o dopodomani, sarà l’ultimo giorno di chi ti sta al cuore e di tutto ciò che ami, allora la frase ci fa confrontare la vita più profondamente, visualizzando la solitudine necessaria per comprendere una tale realtà. C’è bisogno un lavoro duro e la necessità di imparare, un apprezzamento profondo del dolore e dell’amore che tutto intorno dovrà finire.

E adesso?

Non attendere un’altra domenica o fino ad un altro lockdown per meravigliartene.

Carlo Rey Lacsamana è un filippino nato e cresciuto a Manila, Filippine.  Dal 2005, sta vivendo e lavorando nella città toscana di Lucca, Italia.  Contribuisce regolarmente a giornali nelle filippine, scrivendo della politica, cultura, ed arte.  Inoltre, scrive per una rivista accademica locale nella toscana che è pubblicata due volte all’anno.  I suoi articoli sono stati pubblicati in riviste negli stati uniti, canada, l’uk, india e messico.  Visitate il suo sito o seguitelo ad Instagram @carlo_rey_lacsamana.

Previous post A Café in Piazza San Francesco
Next post C’è tempo per ballare e tempo per addolorarci