di

Carlo Rey Lacsamana

In questi giorni si vocifera di un imminente nevicata. La neve in questo minuscolo angolo di Toscana è rara come il tartufo. Non tutti sono appassionati di neve perché provoca diversi disagi e fastidi e il 2020 già ce ne ha regalati parecchi. Ma nessuno, presumo, possa negare la bellezza eterea e assorbente della neve, che trasforma il volto della nostra piccola città. Una Lucca avvolta dalla neve fiorisce con una meravigliosa profusione di desolazione e splendore, stranezza e bellezza, il cielo di un blu cupo e le pareti come piccole Alpi affascinanti. Almeno, era così tre anni fa, quando per l’ultima volta ha nevicato copiosamente.

Il recente clamore contro assembramenti di gruppetti di giovani  senza mascherina fuori da un famoso pub del centro città, in violazione delle rigide normative in materia di sicurezza ai tempi del Covid-19, ha deviato l’attenzione dai discorsi e dalle preoccupazioni sulla neve. Anzi, le fotografie e i video dell’incidente in questione si sono diffusi rapidamente sui social media mostrando un numero di giovani che bevevano e ballavano spalla a spalla in un affollato open-air, e subito è scoppiata l’indignazione generale. I social media e i giornali locali ci hanno intrattenuto con una raffica di condanne:  è emerso un fuoco incrociato di volgari opinioni di influencer che si sono gettati nella mischia solo per prendere parte ad una causa utile a farsi pubblicità; e “giornalisti” senza freni hanno trovato un capro espiatorio per poter esporre i loro pregiudizi.

Dietro la crudele presa in giro dell’intera faccenda devono ancora essere poste domande sostanziali. Condannare è facile, capire è laborioso. Questo incidente suggerisce molte cose. Rivela lacune nella comprensione della nostra situazione devastata dalla pandemia; rivela quanto abbiamo affrontato senza fantasia e senza carità le esigenze sociali che si sono create, aggravate dalle strategie disordinate dei nostri governanti  e dalla mancanza di comunicazione tra istituzioni, leader e popolo. Con le dinamiche della nostra vita lasciate vagare nel labirinto di colori cangianti (ieri rosso, oggi giallo, domani chi può dirlo?), era assolutamente prevedibile che un simile incidente accadesse.

Gli ultimi mesi sono stati così spettrali, immobili e confusi che i giovani, con la loro naturale propensione all’avventura, la loro innata energia e impulsività con le quali sono soliti cogliere l’opportunità di uscire per riunirsi con i loro amici. 

Principalmente questo incidente suggerisce una riflessione differente: le dislocazioni sociali e la rottura delle relazioni causate dalla pandemia ci invitano ad ampliare la nostra concezione relativa a quali saggi cambiamenti dovremo apportare alla comunità,  che soddisferanno il nostro crescente bisogno di socialità, di comunione, di compagnia. Questa è anche la prova dell’incapacità e inadeguatezza dello schermo Internet per sanare il nostro isolamento. L’esperienza online non può e non potrà mai sostituire il piacere intimo della compagnia offline.

Inventare nuove forme di solidarietà e incontri creativi senza provocare un altro blocco prolungato richiede un’immaginazione collettiva e un amore radicale. Va scoperto uno spazio nelle nostre vite limitate dall’ambiente in cui possiamo essere collegati, non attraverso lo schermo, ma dove possiamo chiederci a vicenda: come siamo arrivati ​​qui?  Un luogo dove ascoltare le storie degli altri: Eccomi. Eccoti qui. Va chiesto ai leaders di ascoltare apertamente le voci dei giovani e ai giovani di assumersi responsabilità con disciplina, astuzia, gioia e dolore. Solo una lotta collettiva può aprire nuove dimensioni nelle nostre vite limitate dal virus.

Soprattutto come cultura dobbiamo educare noi stessi a sopportare il dolore. Conoscere il dolore non come emozione ma come abilità. Sopportare il dolore significa risvegliare la nostra capacità di apprezzare adeguatamente la vita. 

Non sorprende che quando i giovani si riuniscono e c’è musica intorno, ballano. La danza incarna il pulsare esultante della vita. Evoca la gioia spavalda e il dolore di essere vivi. Forse il nostro compito come cultura in questo periodo molto travagliato è di evocare la giusta melodia alla quale possiamo ballare mentre ci addoloriamo, addoloriamo mentre balliamo. Se vogliamo ballare, il nostro primo movimento dev’essere quello di onorare ciò che abbiamo perso.

Carlo Rey Lacsamana è un filippino nato e cresciuto a Manila, nelle Filippine. Dal 2005 vive e lavora nella città toscana di Lucca, in Italia. Collabora regolarmente a riviste nelle Filippine, scrivendo politica, cultura e arte. Scrive anche per una rivista accademica locale in Toscana che viene pubblicata due volte l’anno. I suoi articoli sono stati pubblicati su riviste negli Stati Uniti, Canada, Regno Unito, Germania, India e Messico. Visita il suo sito o seguilo su Instagram @carlo_rey_lacsamana.

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